Medicina di Famiglia e Specialistica
COVID-19

Correlazione tra carenza di vitamina D e COVID‑19: revisione critica della letteratura

9 Nov 2022

da Vitamin D UpDates

Angelo Fassio 1, Giulia Zanetti 1, Davide Bertelle 1, Marcella Sibani 2

 1 UOC Reumatologia, Verona; 2 UOC Malattie Infettive, Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata, Verona

 

Dopo poco più di due anni dopo la dichiarazione da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) dell’outbreak di SARS‑CoV‑2 come pandemia 1, adottando la parola chiave “COVID‑19”, troviamo su PubMed un numero sorprendente di pubblicazioni (256.087 pubblicazioni, aggiornato al 19 giugno 2022). Seppur in misura minore, anche la ricerca “COVID‑19 and vitamin D” restituisce un numero significativo di voci: 1.189. Ciò equivale a circa 1,5 lavori pubblicati quotidianamente; per confronto, “osteoporosis and vitamin D” restituisce 10.914 voci, con tuttavia date delle prime pubblicazioni che risalgono sino agli anni ’50.
Effettivamente, l’interesse sulla vitamina D in questo ambito è stato intenso, sin da subito. Già verso fine 2020 pubblicavamo su questa rivista un sunto delle poche evidenze allora disponibili, e in particolare sui primi dati di associazione tra status vitaminico D e rischio di infezione da SARS‑CoV‑2 2.
Da allora, moltissimo è stato pubblicato.
In questo articolo riassumeremo le osservazioni tratte da una metanalisi prodotta da esperti Italiani sull’associazione tra status vitaminico D e outcome clinici in pazienti affetti da COVID‑19 3. Tale metanalisi è disponibile open access, e, se siete interessati all’argomento, vi suggeriremmo di leggerla per esteso. A seguire un breve commento sulla qualità delle evidenze attualmente disponibili sul beneficio della supplementazione in questi pazienti.

 

Status vitaminico D e outcome clinici: materiali e metodi

Come endopoint primario, l’analisi si è prefissata di sintetizzare l’evidenza disponibile sulla relazione tra status vitaminico D come predittore di gravità di malattia, ovvero mortalità o necessità di trasferimento in terapia intensiva (UTI).
Come endpoint secondario, invece, è stata analizzata la relazione tra status vitaminico D, suscettibilità all’infezione da SARS‑CoV‑2 e rischio di ospedalizzazione.
Una nota importante: dal momento che la malattia stessa, verosimilmente, si associa a una riduzione dei valori plasmatici di 25-idrossi-vitamina D [25(OH)D] 3, per fare fronte a un bias chiamato reverse causality (Fig. 1), sono stati analizzati separatamente gli studi il cui valore di 25(OH)D era stato ottenuto prima dell’infezione (quindi, a rigor di logica, meno condizionati da questo problema), da quelli in cui il valore è stato ottenuto al momento dell’ospedalizzazione.
Di 3.205 voci inizialmente individuate, la selezione ha permesso di includere nell’analisi 54 studi.
Come atteso, in una metanalisi che includa studi osservazionali, la qualità dei lavori selezionati, misurata con la scala di Newcastle-Ottawa (uno strumento apposito per la valutazione degli studi non randomizzati), è risultata piuttosto eterogenea, con diversi studi classificati come low quality (punteggio della scala ≤ 6). Gli studi non-randomizzati, come noto, sono infatti esposti all’influenza diversi fattori confondenti. Inoltre, non sempre gli Autori dettagliano e/o includono adeguatamente i metodi con cui sono stati condotti. Tuttavia, l’analisi ristretta a solamente gli studi di qualità elevata (analisi di sensibilità), non ha evidenziato particolari criticità.
Un altro aspetto fondamentale in una metanalisi è la valutazione del publication bias, ovvero un fenomeno che si può verificare come conseguenza della realtà editoriale scientifica odierna, che talora privilegerebbe gli studi con risultati “positivi!” (ovvero statisticamente significativi) 4. L’identificazione di un rischio significativo di publication bias, suggerito da test appositi come il test di Egger e l’ispezione del funnel plot, è fondamentale per contestualizzare e interpretare i risultati estratti dell’analisi. La Figura 2 mostra due esempi fittizi di funnel plot. Nella presente metanalisi, un certo grado publication bias è emerso per l’outcome “trasferimento in UTI” quando si è adottata come soglia di 25(OH)D plasmatico < 75 nmol/L e per la mortalità, quando è stata adottata la soglia < 50 nmol/L.
Sulla base di queste osservazioni, non si può pertanto escludere che i risultati ottenuti su questi outcome siano, almeno parzialmente, sovrastimati (sebbene ulteriori analisi eseguite successivamente non abbiano corroborato questo sospetto).

 

 

 

Status vitaminico D e outcome clinici: risultati

 

Endpoint primario: trasferimento in UTI e mortalità

Il dato probabilmente più eclatante è l’osservazione di un rischio aumentato di necessità di trasferimento in UTI nei pazienti con valori di 25(OH)D < 25 nmol/L, sia per quanto riguarda il dataset di tutti gli 11 studi analizzati [OR (odds ratio) 2,63, 95% IC (intervallo di confidenza) 1,45-4,77], che per quanto riguarda gli studi in cui il dosaggio del 25(OH)D era stato eseguito, per altri motivi, prima dell’ospedalizzazione (OR 2,55, 95% IC 1,28-5,08). Come già menzionato, ciò tenderebbe a escludere la reverse causality, dal momento che, in questi studi, il reperto di bassi valori di vitamina D aveva preceduto lo sviluppo della malattia.
Simili risultati, con un incremento del rischio di trasferimento in UTI, sono stati osservati anche per soglie più alte di 25(OH)D (ovvero < 50 e 75 nmol/L), sebbene senza raggiungere la significatività statistica per quanto riguarda l’analisi degli studi in cui 25(OH)D era stata dosata prima dell’ospedalizzazione.
In merito all’outcome “mortalità”, il rischio aumentato è stato confermato per tutte le soglie di 25(OH)D (ad es. 25(OH)D < 25 nmol/L, 21 studi, OR per mortalità 2,60, 95% IC 1,93-3,49), ma non nei lavori in cui la vitamina D era stata dosata prima dell’ospedalizzazione.

 

Endpoint secondari: rischio di infezione da SARS‑CoV‑2 e ospedalizzazione

Un aumentato rischio di infezione da SARS‑CoV‑2 è stato confermato per valori di 25(OH)D inferiori a tutte le soglie considerate e confermato per valori di pre-ospedalizzazione < 25 nmol/L e < 50 nmol/L (4 studi, OR 1,42, 95% IC 1,09-1,84 e 3 studi, OR 1,35, 95% IC 1,08-1,69, rispettivamente).
Anche al di sotto dei 75 nmol/L, è stato individuato un rischio di ospedalizzazione aumentato, ma non quando l’analisi è stata ristretta ai valori pre-ospedalizzazione.
Infine, anche per il rischio di ospedalizzazione stessa, l’OR è risultato aumentato per tutte le soglie; tuttavia, solamente per la soglia < 25 nmol/L l’analisi degli studi in cui il dosaggio era stato eseguito prima dell’ospedalizzazione ha riportato un incremento significativo (2 studi, OR 1,99, 95% IC 1,02-3,89).

 

Status vitaminico D e outcome clinici: cosa possiamo concludere

Ancora una volta, anche nel COVID‑19 si osserva una forte associazione tra insoddisfacente status vitaminico D, rischio di sviluppare la malattia e peggiori outcome clinici. Come già commentato, per quanto si sia provato a correggere per bias come la reverse causality, non è nella natura degli studi osservazionali (da cui questa metanalisi è gemmata), la possibilità di dimostrare un nesso causa-effetto. Gli studi osservazionali possono evidenziare l’associazione tra due variabili, ma essa non implica necessariamente la presenza di un nesso-causa effetto.
Come noto, questa capacità è infatti propria degli studi randomizzati e controllati (RCT), di cui discuteremo brevemente in seguito.
Tuttavia, la rigorosa metodologia con cui questa analisi è stata condotta permette comunque di contingentare l’influenza di questi bias e ci restituisce un quadro riassuntivo delle evidenze osservazionali a oggi disponibili. Questi risultati suggeriscono pertanto come il deficit di vitamina D rappresenti quantomeno un marcatore di rischio per infezione da SARS‑CoV‑2 e successiva evoluzione sfavorevole.
In ogni caso, come abbiamo già ampiamente sostenuto in diversi editoriali pubblicati in era pre-COVID‑19 5, non vi sono molti dubbi che il deficit di vitamina D sia da correggere, come da buona pratica medica (ed etica), in particolare per popolazioni a rischio.

 

Supplementazione di vitamina D e studi interventistici: metanalisi e cattiva scienza

Come già ribadito, solamente la replicazione di dati provenienti da rigorosi RCT può confermare l’utilità di un determinato provvedimento interventistico. All’apice della gerarchia della medicina basata sull’evidenza, infatti, troviamo i risultati di metanalisi basate (esclusivamente) su RCT.
Ciononostante, l’Handbook della Cochrane Collaboration considera la possibilità di includere non-RCT in una metanalisi, in casi particolari 6. Una situazione emergenziale come i primi mesi di una pandemia, con la pressante necessità di trovare trattamenti sicuri e potenzialmente efficaci, sicuramente può rappresentare una di queste eccezioni. Tuttavia, dobbiamo ricordare che, per quanto una pandemia possa abbassare l’asticella che rende questo trade-off accettabile, l’incertezza e l’influenza dei fattori confondenti che possono affliggere un’analisi di questo tipo rimangono considerevoli e invariate.
Questa pandemia ci ha colto in contropiede, sia come clinici che come ricercatori, e sono stati commessi errori piuttosto clamorosi dovuti a troppa fretta nell’avvallare alcuni dati preliminari; si veda ad esempio il caso del trattamento con idrossiclorochina e azitromicina. Nella prima metà del 2020, dati osservazionali assolutamente preliminari hanno finito comunque per influenzare la pratica clinica di molti di noi, per poi venire completamente smentiti in seguito dai risultati degli RCT 7. Anche in questo caso, sono emersi i limiti degli studi osservazionali, in cui è spesso impossibile correggere adeguatamente per fattori confondenti (contestuali e umani) con il rischio significativo di restituire dati di efficacia alterati e sovrastimati 7.
Credo sia l’auspicio di tutti noi quello di evitare il replicarsi di una situazione analoga per quanto riguarda la supplementazione di vitamina D nel COVID‑19.
A oggi, sono presenti solamente 6 RCT sulla supplementazione con vitamina D e outcome clinici 8-13 (Tab. I). Peraltro, per la maggior parte di questi, l’outcome clinico non rappresentava l’endpoint primario e non sono stati pertanto progettati per esso. Di questi 6 RCT, solamente 2 (affetti comunque da significativi limiti metodologici) 8,9 parrebbero individuare un qualche segnale di efficacia. Un settimo studio è stato addirittura retratto dopo la pubblicazione per le gravi criticità da cui era afflitto: Lakireddy et al. 14.

 

D’altro canto, tramite una veloce ricerca su PubMed, possiamo ritrovare almeno 10 review sistematiche con metanalisi (che non elencheremo, per non appesantire eccessivamente il documento). Ovviamente, la maggior parte di queste metanalisi ha incluso anche, se non solamente, studi osservazionali. Credo sia importante rimarcare come questo modo di procedere, e questo proliferare di analisi riassuntive di dati di qualità inadeguata, metta la comunità scientifica a rischio di una grave perdita di credibilità, in particolare oggi che abbiamo trattamenti supportati da RCT e dalle raccomandazioni internazionali 15.
Ad esempio, una di queste metanalisi 16 (definibile umbrella meta-analysis, in quanto a sua volta riassuntiva di altre 7 review sistematiche con metanalisi – tutte di studi osservazionali) suggerirebbe una riduzione di addirittura il 50% della mortalità da COVID‑19 nei pazienti trattati con vitamina D (OR 0,479, 95% IC 0,346-0,664). Per meglio contestualizzare il tutto, nessuno dei trattamenti considerati dalle raccomandazioni dell’European Society of Clinical Microbiology and Infectious Diseases 15 presenta un effect size che si avvicini anche solo lontanamente a un tale dato. Capite come un risultato simile sia davvero poco credibile e come rappresenti il tipico esempio del detto: garbage in, garbage out (“spazzatura dentro, spazzatura fuori”). Non importa quanto potente e raffinato possa essere il nostro strumento (in questo caso, la metodica metanalitica): se la qualità dei dati è pessima, lo sarà pure l’output finale.

Ahimè, a oggi, nemmeno chi si è prefissato di eseguire analisi di natura più selettiva ha dimostrato un sufficiente rigore metodologico. Ad esempio, Rawat et al. 17, come specificato nella sezione materiali e metodi della loro metanalisi, avrebbero incluso solamente RCT e studi “quasi-sperimentali”. Tuttavia, classificare come “quasi-sperimentali” tali studi pare quantomeno controverso: tali lavori presentavano semplicemente un design osservazionale, e come tali sono infatti regstrati su clinicaltrials.gov.
Credo infine che valga la pena di segnalare la review sistematica con metanalisi di Varikasuvu et al. 18, pubblicata su Expert Review of Anti-infective Therapy (un giornale con più di 5 di impact factor). Gli Autori di questa review che, in effetti, ha incluso esclusivamente RCT, concludono che i pazienti COVID‑19 supplementati con vitamina D hanno una maggiore probabilità di esitare in minori tassi di trasferimento in terapia intensiva, mortalità e positività al tampone RT-PCR.
Eppure, esaminando il paper, emergono degli strani aspetti.
Innanzitutto: come interpretereste queste conclusioni? Immagino, assumereste come significativo il beneficio in termini di trasferimento in UTI, mortalità e per positività al tampone. Eppure, ad esempio, l’analisi della mortalità non fornisce assolutamente un risultato significativo: OR 0,78, 95% IC 0,25-2,40.
Innanzitutto, crediamo valga la pena di segnalare come diversi studi siano stati inclusi svariate volte all’interno della stessa analisi (ad es. nell’analisi della “severità” uno stesso studio è stato incluso sia per il parametro “ventilazione meccanica” che “trasferimento in UTI”). Oltre a ciò, va segnalato come il risultato “significativo” citato nella (a nostro modo di vedere ambigua) conclusione degli autori è, in realtà, riferito all’analisi complessiva di tutti gli outcome accorpati.

Ovvero: la significatività ottenuta (un OR 0,6, 95% IC 0,4-0,92) è stata ottenuta raggruppando tutti assieme i dati relativi a: “COVID-19 severity” (severità), “RT-PCR positivity” (positività della real-time PCR), “COVID-19 seropositivity” (sieropositività) e “Deaths” (mortalità).

Sebbene nelle conclusioni del full-text questo aspetto sia stato menzionato, riteniamo che, per correttezza, avrebbe dovuto esserlo anche nell’abstract, ovvero il primo elemento che viene considerato dai fruitori.
Infine, questo studio ha purtroppo incluso anche lo studio di Lakireddy, già menzionato, in quanto soggetto di retraction dopo la pubblicazione. Nell’analisi del risk of bias della suddetta metanalisi (consultabile come materiale supplementare), era stato valutato come affetto da some concerns (“qualche criticità”), giudizio a ogni modo sufficiente per l’inclusione nell’analisi. Nello specifico, peraltro, sotto la voce randomisation process (“processo di randomizzazione”), il giudizio degli autori era stato completamente positivo (luce verde).

 

Conclusioni

L’ipovitaminosi D è una condizione problematica e diffusa. A fronte di una mole impressionante di studi epidemiologici che ne hanno evidenziato l’associazione con moltissime condizioni patologiche 5, l’utilizzo di strumenti di ricerca inadeguati o di trial mal progettati 5 ha creato molta confusione tra i clinici sulle modalità e le indicazioni per la sua supplementazione.
Qualcosa di analogo sta accadendo anche nell’ambito COVID‑19, in cui l’associazione tra malattia grave e ipovitaminosi D è stata confermata da dati ormai solidi, mentre la presenza di un reale beneficio della supplementazione una volta che la malattia si è sviluppata rimane ancora un’incognita. Personalmente, ritengo che sia compito di tutti noi vigilare affinché la qualità della ricerca in questo ambito rimanga adeguata, per evitare che ulteriori studi affetti da pesanti limitazioni metodologiche non contribuiscano a creare ulteriore confusione.

 

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