Medicina di Famiglia e Specialistica
Diabete

Livelli circolanti di vitamina D e rischio di insorgenza di diabete mellito tipo 2: c’è un legame?

18 Nov 2024
diabete

da Vitamin D UpDates

 

 

Il diabete mellito colpisce oltre 500 milioni di persone nel mondo e la sua prevalenza, specialmente del diabete tipo 2, è in costante aumento negli ultimi decenni (con un incremento globale stimato di circa il 50% nel 2045). A livello globale, i decessi dovuti al diabete e alle sue complicanze croniche nel 2019 sono stati stimati attorno a 6 milioni1.

L’alterata glicemia a digiuno e la ridotta tolleranza glucidica descrivono delle condizioni di prediabete. Queste due condizioni, singolarmente e in combinazione fra loro, sono anch’esse assai frequenti a livello mondiale (colpendo circa il 7-10% della popolazione globale) e rappresentano non solo fattori di rischio per lo sviluppo del diabete mellito tipo 2, ma anche dei fattori di rischio associati allo sviluppo di complicanze vascolari e renali a lungo termine 1. In assenza di strategie terapeutiche efficaci (che sono principalmente basate sulle modifiche dello stile di vita), circa il 5-10% della popolazione con prediabete ogni anno progredisce a diabete tipo 2 conclamato.

 

 

La carenza/insufficienza di vitamina D è stata associata alla coesistenza di molteplici patologie croniche extra-scheletriche [tra cui obesità, malattia cardiovascolare, alcune forme di neoplasia, diabete ed epatopatia steatosica non alcolica (NAFLD)], suggerendo la possibilità che la vitamina D possa svolgere molteplici e benefici effetti pleiotropici a livello extra-scheletrico, grazie alla distribuzione ubiquitaria del suo specifico recettore 2-4. La vitamina D, infatti, ha recettori intranucleari che sono espressi su molte cellule e tessuti, incluse le beta cellule pancreatiche, e sembra svolgere, pertanto, un ruolo nell’omeostasi glucidica 2,5,6. Studi osservazionali hanno dimostrato l’esistenza di una associazione tra bassi livelli sierici di vitamina D e la presenza di diabete tipo 2. Sebbene alcuni studi di intervento abbiano suggerito che la supplementazione con vitamina D possa esercitare un potenziale effetto benefico sul controllo glicemico e sul grado di resistenza insulinica, lavori su ampia scala e alcune metanalisi di trial clinici randomizzati hanno riportato dei dati contrastanti 7. Per esempio, nel trial clinico randomizzato D2d, che arruolava circa 2.400 soggetti adulti con prediabete senza tener conto del loro stato vitaminico basale, la supplementazione orale con vitamina D3 per 24 mesi non riduceva il rischio di sviluppare diabete rispetto al placebo 8. Al contrario, una recente meta-analisi di 4.190 partecipanti, che includeva dati individuali di tre ampi trial clinici randomizzati (incluso anche il trial D2d), ha dimostrato come la supplementazione con vitamina D in soggetti con prediabete (in particolare, nei soggetti che mantenevano valori circolanti di 25(OH)D ≥ 125 nmol/L [≥ 50 ng/mL] durante il trial rispetto a quelli con valori di 25(OH)D compresi tra 50 e 74 nmol/L) è risultata efficace nel ridurre il rischio di circa il 15% di sviluppare diabete tipo 2 nel corso di ~3 anni di trattamento 9. Tuttavia, tale osservazione non è necessariamente traslabile anche alla popolazione generale adulta con normale glicemia a digiuno. In particolare, esistono attualmente in letteratura pochi studi epidemiologici condotti nella popolazione generale adulta, che abbiano valutato il rischio di insorgenza di diabete mellito tipo 2 all’interno dell’intero spettro di tolleranza glu­cidica (cioè in presenza di normoglicemia e forme di prediabete, che includono alterata glicemia a digiuno e ridotta tolleranza ai carboidrati). Inoltre, non è ancora del tutto chiaro se varianti genetiche del recettore della vitamina D (VDR), che è espresso in molteplici tessuti, siano in grado di modulare l’associazione tra stato vitaminico D e rischio a lungo termine di sviluppare diabete.

Un recente studio prospettico di coorte, che è stato pubblicato ad aprile 2024 sul Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism da Fu et al. 10, ha cercato di rispondere a questi quesiti. Per fare questo, gli autori hanno utilizzato i dati di un ampio studio di coorte osservazionale, lo UK Biobank database, che ha reclutato oltre 500.000 soggetti britannici adulti di età compresa fra 40 e 69 anni nel periodo compreso fra 2006 e 2010. Dallo studio sono stati esclusi i soggetti che erano affetti da diabete al baseline (in base alla loro storia clinica e/o i livelli di HbA1c) e quelli che non avevano dati riguardanti il dosaggio sierico della 25(OH)D e la misurazione di quattro specifici polimorfismi genetici del VDR (rs7975232 Apal; rs1544410 Bsml; rs2228570 Fokl; rs731236 Taql). Le informazioni riguardo alla diagnosi di diabete durante il periodo di follow-up sono state ottenute dall’analisi delle cartelle cliniche dei ricoveri ospedalieri e dai registri delle schede di morte.

Nello studio di Fu et. 10 sono stati pertanto complessivamente inclusi 379.699 individui adulti senza diabete al baseline (età media 56 anni, 54% donne); 86% di questi soggetti aveva una normale tolleranza glucidica (definita come HbA1c < 5,7%), mentre il restante 14% (n = 53.886) aveva prediabete al baseline (definito come HbA1c compresa tra 5,7% e 6,5%). I partecipanti con normale tolleranza glucidica al baseline avevano una mediana di 25(OH)D di 48 nmol/L (IQR: 33,5-63,4 nmol/L), mentre quelli con prediabete avevano una mediana di 25(OH) D di 45 nmol/L (IQR: 30,9-60,3 nmol/L). Complessivamente, nell’intera coorte dello studio il 53,4% dei soggetti aveva valori circolanti di 25(OH)D < 50 nmol/L. Durante il follow-up dello studio (mediana di 14 anni), 6.315 (1,9%) soggetti normoglicemici e 9.085 (16,9%) soggetti con prediabete hanno sviluppato diabete mellito tipo 2.

Quando i partecipanti dello studio venivano suddivisi in base ai loro valori circolanti di 25(OH)D al baseline in accordo ai cutoff proposti dalla Endocrine Society [25(OH)D < 25, 25-49,9, 50-74,9 e ≥ 75 nmol/L], gli autori hanno osservato una significativa associazione tra livelli circolanti più elevati di 25(OH)D e rischio ridotto di sviluppare diabete tipo 2. In particolare, confrontati con i soggetti che avevano livelli di 25(OH)D < 25 nmol/L, i soggetti con normoglicemia e valori di 25(OH)D ≥ 75 nmol/L al baseline avevano un rischio significativamente ridotto di sviluppare diabete tipo 2 (hazard ratio: 0,62, 95% IC: 0,56-0,70); analogamente, confrontati con i soggetti che avevano livelli di 25(OH)D < 25 nmol/L, i soggetti con prediabete e con valori di 25(OH)D ≥ 75 nmol/L al baseline avevano un rischio signi­ficativamente ridotto di sviluppare diabete (hazard ratio: 0,64, 95% IC: 0,58-0,70). Questi dati rimanevano significativi anche dopo aggiustamento statistico per sesso, età, razza, obesità, attività fisica, stato socioeconomico, uso di farmaci per dislipidemia ed ipertensione, uso di supplementi di vitamina D e molteplici altri possibili fattori confondenti. I risultati rimanevano significativi anche quando venivano esclusi dall’analisi statistica i casi di diabete che insor­gevano nei primi 2 anni di follow-up dello studio. Gli autori hanno osservato che vi era una relazione inversa e lineare fra livelli di 25(OH)D e rischio di insorgenza di diabete nei soggetti con prediabete mentre tale relazione era significativa ma non lineare (ma polinomiale inversa) nei soggetti con normali valori di HbA1c al baseline. Per ogni incremento di 10 nmol/L nei valori circolanti di 25(OH)D al baseline, vi era un decremento del rischio di insorgenza di diabete pari al 7%. Inoltre, sia nei soggetti con normale tolleranza glucidica che in quelli con prediabete al baseline, il rischio di sviluppare diabete nel corso del follow-up si riduceva progressivamente nei soggetti che avevano valori di 25(OH)D ≥ 50 nmol/L (Fig. 1). Gli autori hanno inoltre riportato la presenza di una significativa interazione statistica fra livelli di 25(OH)D e presenza di polimorfismi genetici del VDR nei soggetti con prediabete (ma non in quelli con normoglicemia al baseline); in tali soggetti l’effetto protettivo di elevati livelli di 25(OH)D sul rischio di sviluppare diabete era maggiore nei soggetti portatori dell’allele T (rs1544410) del gene Bsml (portatori di alleli TT: hazard ratio: 0,53, 95% IC: 0,38-0,73; alleli CT: hazard ratio: 0,65, 95% IC 0,55-0,77; alleli CC: hazard ratio: 0,75, 95% IC: 0,61-0,91). Infine, in un’analisi statistica di mediazione, gli autori hanno inoltre dimostrato che i lipidi plasmatici, in particolare i livelli di trigliceridi plasmatici, mediano una parte rilevante dell’associazione esistente fra livelli di 25(OH)D e rischio di diabete incidente, sia nei soggetti con normale tolleranza glucidica (26%) che in quelli con prediabete (34%) al baseline. In particolare, se un individuo aveva sia bassi livelli di 25(OH)D che elevati livelli circolanti di trigliceridi il suo rischio di sviluppare diabete durante il follow-up era molto più elevato rispetto ai soggetti che avevano solo una alterazione isolata 10.

 

 

I principali punti di forza di questo studio di coorte sono il suo disegno prospettico, l’ampia numerosità del campione esaminato (circa 380.000 soggetti), la lunghezza del follow-up (mediana di circa 14 anni), l’aggiustamento statistico per comuni fattori di rischio e molteplici fattori confondenti. Tra i principali limiti dello studio vanno senz’altro menzionati il disegno osservazionale dello studio (infatti, è bene ricordare che questo non è uno studio di supplementazione/intervento farmacologico con vitamina D e, quindi, la presenza di una associazione significativa fra 25(OH)D e rischio di diabete non vuole dire automaticamente che esista una causalità!), la mancanza di misurazioni seriate dei livelli circolanti di 25(OH)D, l’inclusione di soggetti britannici di età compresa fra 40 e 69 anni e prevalentemente di razza caucasica, la mancanza di misurazione della glicemia a digiuno al baseline (essendo disponibili esclusivamente valori di HbA1c) e il fatto che la diagnosi di diabete incidente durante il periodo di follow-up tosse basata sull’analisi delle cartelle cliniche dei ricoveri ospedalieri e dei registri delle schede di morte 10.

Pertanto, i risultati di questo studio di popolazione britannica (con soggetti di età compresa fra 40 e 69 anni) documentano come elevati livelli circolanti di 25(OH)D al baseline siano significativamente associati a un rischio ridotto di sviluppare diabete tipo 2 nel corso di un follow-up mediano di circa 14 anni, sia nei soggetti con normale tolleranza glucidica che in quelli con prediabete al baseline. In questa coorte di soggetti, il livello sierico di vitamina D dove si iniziavano ad osservare dei possibili effetti protettivi sul rischio di sviluppare diabete tipo 2 era ≥ 50 nmol/L (≥ 20 ng/mL). Nei soggetti con prediabete, l’associazione fra elevati livelli di 25(OH)D e ridotto rischio di diabete era inoltre modificata dalla presenza di varianti genetiche del VDR (rs1544410) del gene Bsml. Dai dati di questo studio, è possibile infine ipotizzare che il miglioramento del profilo lipidico (in particolare la riduzione dei livelli dei trigliceridi plasmatici) possa contribuire a spiegare almeno una parte dell’effetto protettivo dei livelli di 25(OH)D sul rischio di insorgenza del diabete mellito tipo 2 10.

In conclusione, i risultati di questo ampio studio prospettico di coorte (che ha utilizzato l’UK Biobank database) forniscono un ulteriore e significativo supporto alla possibilità che adeguati livelli circolanti di vitamina D possano espletare dei benefici effetti sul rischio di sviluppare diabete mellito tipo 2 nella popolazione generale adulta.

 

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