Medicina di Famiglia e Specialistica
Salute e sanità

Quando il lavoro si trasforma in dipendenza patologica

18 Set 2024
lavoro

a cura di Piercarlo Salari, medico e divulgatore medico scientifico – Milano

 

 

Nello scenario odierno, che impone al medico di dedicare attenzione tanto all’obiettività clinica quanto alla sfera psicoemotiva e comportamentale nonché allo stile di vita, un elemento da acquisire nell’inquadramento multidimensionale di un paziente è il suo approccio alle vacanze e all’attività professionale.
Alla ripresa dopo le ferie, per esempio, è documentato un quadro ansioso-depressivo noto come post-holidays blues o, più comunemente, sindrome da rientro. Se tale condizione, però, non risponde a degli specifici criteri diagnostici e può essere genericamente ricondotta a una momentanea difficoltà di riadattamento alla routine, una psicosi a tutti gli effetti è il workaholism: un neologismo introdotto nel 1971 e formato dall’unione di work e alcoholism – letteralmente “ubriacatura da lavoro” – per connotare una dipendenza dall’attività professionale di natura patologica e pertanto gravata da delle serie ripercussioni a livello sociale, sul benessere psicofisico e sulla qualità di vita. Si tratta, in altri termini, di un disturbo che porta un individuo a dare assoluta e inderogabile priorità al lavoro rispetto alle attività ricreative, trascurando le relazioni con gli altri, a partire dai familiari, e perfino la propria salute e i bisogni primari come quello di dormire. Questa definizione, generalmente impiegata nella letteratura anche se non formalmente standardizzata, configura quindi un modello comportamentale basato su due elementi, di carattere rispettivamente comportamentale e cognitivo: da un lato il tempo esageratamente dedicato al lavoro, senza soste e senza limiti; dall’altro l’istinto incoercibile di lavorare, che tecnicamente giustifica la classificazione del workaholism all’interno dei disturbi compulsivi.

 

La valutazione

Un’insidia che il medico deve subito evitare è quella di confondere il workaholism con l’overcommittment, ossia uno sproporzionato coinvolgimento nel lavoro, che il più delle volte è animato dall’intento di raggiungere dei precisi traguardi economici o professionali. La profonda differenza risiede nel fatto che l’overcommittment è ritenuto un comportamento positivo, che impone, sì, dei notevoli livelli di dedizione e di concentrazione, ma che trova anche un adeguato compenso nell’apprezzamento da parte di colleghi e conoscenti e, al di là di un comprensibile sovraffaticamento psicofisico, nella gratificazione e nella realizzazione personale. Il workaholism, al contrario, è sempre associato a dei risvolti sfavorevoli: come già accennato, infatti, ostacola e compromette le relazioni interpersonali e, per effetto della sua impetuosa e incontrollabile ossessività, finisce a lungo andare per penalizzare la stessa produttività del paziente. Non solo: a seconda dei casi, il workaholism può minare l’autostima o integrarsi con atteggiamenti perfezionistici (intesi come tratto psicopatologico) o comorbilità, a partire dal consolidamento di uno stato depressivo.
Senza entrare nei dettagli, è bene ricordare che sono disponibili diverse scale di misurazione del workaholism, per esempio WorkBAT (Workaholism Battery), DUWAS (Dutch Work Addiction Scale) e BWAS (Bergen Work Addiction Scale), ciascuna delle quali caratterizzata da un razionale e da una dimensionalità (mono- o multifattoriale) propri, e una in particolare, WART (Work Addiction Risk Test), volta a stabilire se la sintomatologia di un paziente sia correlabile al disturbo.

 

Considerazioni pratiche

Premesso che il medico di medicina generale si trova in una condizione quanto mai favorevole per ipotizzare un primo sospetto diagnostico e che il consulto dello specialista si rende necessario in caso di alterazione della qualità di vita del paziente, è opportuno richiamare alcuni aspetti di utilità pratica:

  • il workaholism va considerato e di conseguenza gestito – il più delle volte, se tempestiva, la sola psicoterapia è efficace sia al trattamento sia alla prevenzione – al pari di qualsiasi altra dipendenza; come tale può mostrare un decorso variabile e imprevedibile, per esempio con l’alternanza di fasi di remissione e di ricaduta;
  • il tono dell’umore può registrare delle notevoli oscillazioni, da un’eccitazione maniacale alla depressione, e rappresenta un indicatore dell’impatto del disturbo e della conseguente necessità di un intervento impellente;
  • in considerazione della complessità ed eterogeneità delle manifestazioni, in relazione al sesso, all’età, alla professione e al contesto etno-geografico, ogni individuo richiede un approccio personalizzato: per esempio in alcuni casi il workaholism si inscrive nell’ambito di vissuti familiari o di pregresse esperienze stressanti, mentre in altri potrebbe assumere il significato di risposta disfunzionale a fattori ambientali negativi;
  • è evidente, per riprendere lo spunto introduttivo dell’articolo, che qualsiasi assenza forzata dal lavoro, anche se legata a un’occasione gradevole, come le ferie, piuttosto che a una situazione di criticità, quale una malattia, rischia sempre di slatentizzare o di far riacutizzare la sintomatologia.

In conclusione, l’osservazione e l’ascolto attivo restano i presupposti ineludibili di un approccio olistico e, tra i vari accorgimenti pratici, può essere funzionale alla raccolta anamnestica invitare ogni paziente non soltanto a riportare i disturbi e i disagi, ma anche a descrivere il proprio “rapporto” con le vacanze e con il lavoro.

 

Riferimenti bibliografici

 

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